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Cure Palliative alla fine della vita

Una guida per chi si prende cura di persone con malattia di Alzheimer o altre patologie cerebrali degenerative



Questa guida è basata sui risultati di una ricerca (sponsorizzata dalla Alzheimer Society of Canada) sull’esperienza di chi assiste i malati di Alzheimer nella fase finale della vita.

Testi a cura di:

Marcel Arcand, MD (Direttore del Long-term Care Programme-Istituto di Geriatria, Università di Sherbrooke - Canada);

Chantal Caron, infermiera, Ph.D (Ricercatrice al Centro di Ricerca sull’Invecchiamento - Prof. associato al Dipartimento di Scienze Infermieristiche della facoltà di Medicina e Scienze sanitarie, Università di Sherbrooke - Canada)


Edizione italiana a cura di: ACCD, AIMA e Fondazione Maestroni

Traduzione di: Teodoro Spadin

Revisione e adattamento testi di: Franco Toscani

Progetto grafico e impaginazione di Fantigrafica


Foto:

pagg …………… di ©Maurizio Buscarino,

pagg. ……………. di ©Antonio Auricchio


Si ringraziano:

Antonio Auricchio e Maurizio Buscarino che hanno collaborato e partecipato concedendo le foto.

Dante Tassi per la realizzazione fotografica

G.Maria Quaranta, NORMALIEN di Gianpiero Zappa - Montichiari (BS) e S.L.M. spa di Maurizio Zadra - Brescia, per i generosi contributi, elargiti alla Fondazione Maestroni, che hanno reso possibile questa pubblicazione.

Fantigrafica di Palmiro Fanti - Cremona, per la generosa collaborazione professionale

Daniele Villani - RSA Fondazione Sospiro, che ha messo a disposizione del progetto la sua sensibilità, competenza ed esperienza.



Questa guida è destinata a chi assiste le fasi avanzate e terminali di un

malato affetto da grave demenza, prodotta sia da malattia di Alzheimer,

sia da altri tipi di malattie degenerative cerebrali (ad esempio dal

morbo di Parkinson, o come effetto del danno prodotto da infarti multipli

cerebrali o da alcune forme di sclerosi multipla).

Ciò che accomuna tutte queste malattie è che chi ne è affetto va incontro

ad una progressiva difficoltà nel parlare e nel comprendere la realtà,

cioè di rendersi conto di quanto avviene intorno a lui. Questo gli

rende difficile partecipare alle decisioni di ordine medico che lo riguardano.

Di conseguenza, quando insorgono delle complicazioni o dei

nuovi problemi di salute, qualcuno che gli è vicino - la moglie, il figlio

o una persona cara - deve “prendere le sue parti” con l’equipe curante

quando si deve decidere fino a che punto intervenire con cure specifiche.

Questo è un compito difficile, per il quale voi, così come d’altra

parte la maggior parte dei familiari di questo tipo di malati, potreste

non essere preparati.

Lo scopo di questa guida è darvi le informazioni essenziali per poter

comprendere al meglio non tanto la malattia nel suo complesso, quanto

i sintomi che essa produce e le decisioni da affrontare quando si arriva

in uno stadio avanzato, con particolare riferimento ai momenti in cui la

morte appare imminente o ormai inevitabile. Anche in questa fase, infatti,

è comunque possibile attuare un insieme di cure che assicuri al

vostro caro, nonostante tutto, una fine serena e senza sofferenza.

Noi speriamo che queste informazioni vi possano essere utili e vi infondano

un po’ di serenità durante questo difficile periodo.





L’evoluzione naturale di questo tipo di malattie




1) Cosa succede a questi malati, avvicinandosi alla fine?


Nelle fasi terminali della vita, due sono i problemi principali: la difficoltà ad alimentarsi e le ripetute infezioni.

La principale causa di morte è la polmonite, che può avere numerose cause.

Nella maggioranza dei casi è dovuta ai problemi sempre più gravi che accompagnano l’assunzione di alimenti. Il malato spesso rischia di soffocare perché il cibo entra nella via sbagliata. In particolare, succede che saliva e cibo entrino nei polmoni invece che nello stomaco, causando accessi di tosse e difficoltà nel respiro. Alcuni pazienti sono così debilitati da non essere neppure in grado di tossire efficacemente: questa situazione provoca inevitabilmente una insufficienza respiratoria. Molti pazienti vanno così incontro a quella che viene chiamata “polmonite ab ingestis”. Anche quando la polmonite risponde alle terapie e guarisce, è quasi inevitabile che si presenti di nuovo se il malato continua ad aver problemi di deglutizione.

Inoltre, proprio perché non riesce a deglutire, il paziente perde peso e diventa sempre più disidratato, in altre parole avrà un sempre minor volume di liquidi nel suo corpo. Come risultato, diventerà sempre più debilitato, aumentando così la probabilità di sviluppare ulteriori complicazioni come una nuova polmonite o infezioni delle vie urinarie.


2) Cosa si può fare quando il malato non riesce più a mangiare o a bere?


Medici ed infermieri, per prima cosa, cercheranno di identificare le cause della difficoltà ad alimentarsi e faranno ciò che è possibile per porvi rimedio. In alcuni casi, infatti, il problema può essere risolto (per esempio quando si tratti di un’infezione della bocca o di effetti indesiderati di un farmaco).

Tuttavia, nella fase terminale, alcune persone, di deglutire, si rifiutano proprio. Ciò può avvenire per diversi motivi: ad esempio, perché non hanno appetito, oppure perché il cibo, per loro, ha un sapore sgradevole. Oppure possono aver paura di soffocare, o essere semplicemente incapaci di aprire la bocca, o, infine, perché hanno perso del tutto la capacità “fisica” di deglutire.

Esistono diversi modi per far fronte a questo tipo di difficoltà. La strategia più frequentemente adottata è quella di preparare cibi di consistenza cremosa, del tipo “purée” (alimenti “passati” o frullati), e liquidi “addensati” (cioè trasformati in una specie di gelatina), che sono più facili da deglutire.

Per arricchire la dieta o semplicemente per saziare il paziente, si possono usare diversi tipi di integratori alimentari (tipo Meritene, Fortimel, Ensure, ecc.). Questi integratori sono in genere graditi e possono sostituire una parte del pasto.

Tuttavia, quando la malattia avanza, questi rimedi risultano sempre meno efficaci.

A questo punto il problema è se continuare a fornire cibi e liquidi al paziente per via orale, o se somministrarglieli per mezzo di una pompa elettromeccanica tramite un sondino inserito direttamente nello stomaco. Il sondino può essere introdotto attraverso il naso (sondino naso-gastrico) o attraverso la parete addominale (PEG) mediante una piccola incisione.

Questo sistema è certamente utile per pazienti che sono ancora lucidi, con una qualità di vita ancora discreta o che abbiano la possibilità di recuperare le proprie abitudini alimentari dopo un periodo di riabilitazione.

Invece, quando la malattia è arrivata ad uno stadio avanzato, questo tipo di approccio non è consigliabile per i seguenti motivi:

  • il processo d’inserimento nello stomaco di un sondino è piuttosto spiacevole e può provocare stress: il sondino naso–gastrico si può posizionare in RSA, mentre la PEG, solitamente, richiede un sia pur breve trasferimento in ospedale;

  • l’alimentazione per sondino con una pompa elettromeccanica può causare diarrea grave;

  • il sondino si ostruisce con facilità e deve essere sostituito con regolarità;

  • le persone in stato confusionale spesso tentano di sfilarsi il sondino;

  • con l’uso del sondino viene eliminato qualsiasi piacere nel gustare il cibo e il paziente perde anche quel momento di contatto sociale, durante i pasti, che avrebbe avuto con chi lo assiste;

  • e, soprattutto, non è mai stato dimostrato che l’uso del sondino sia in grado di prolungare la vita di un malato in una fase avanzata di demenza. Questo perché polmoniti ab ingestis si verificano comunque, anche in persone nutrite tramite sondino.


Per questi motivi non è consigliabile inserire sondini per introdurre alimenti, utilizzando o meno sistemi complessi come le pompe elettromeccaniche, in chi è in condizioni tali da non far realisticamente prevedere un qualche miglioramento; nè, tantomeno, in coloro che da queste procedure è probabile che possano ricavare più disturbi che giovamento.


3) Cosa può fare l’équipe curante quando il paziente prende la polmonite?


Quando una persona manifesta difficoltà di respiro dovuta all’ingresso di cibo o di saliva nell’apparato respiratorio, è necessario liberarle la parte posteriore della gola e le strutture dove passa l’aria. Questa è una procedura non agevole e sempre piuttosto fastidiosa, da valutare caso per caso.

Per migliorare il comfort del malato, in qualche caso potrebbe essere utile la somministrazione di ossigeno.

Se compare febbre e, se il quadro clinico fa ritenere che si sia sviluppata una polmonite, è possibile che il medico prescriva un antibiotico. Tuttavia, come si è già detto, quando si è in uno stadio avanzato, le probabilità di guarire da una polmonite sono scarse, mentre è molto probabile che questa si ripresenti nuovamente poco tempo dopo.


Ogni situazione, comunque, deve essere attentamente valutata caso per caso. Il medico e il familiare (e se c’è un rappresentante legale del paziente, quale un tutore o un amministratore di sostegno, il suo coinvolgimento è obbligatorio per legge) devono a questo punto decidere se usare un approccio curativo o palliativo, cercando di scegliere l’opzione migliore per il paziente.


4) Un ammalato, in queste condizioni, deve essere ricoverato in ospedale?


Trasferire una persona in stadio avanzato di malattia è spesso causa di grande stress.

I malati in stato di agitazione, aggravato o scatenato dall’essere posti in un ambiente non adatto alla loro condizione (ad esempio, in una stanza del Pronto Soccorso), in genere vengono sedati con tranquillanti e magari anche legati al letto per limitarne i movimenti. In queste condizioni, un malato affetto da demenza solitamente rifiuta il cibo e per lo più finisce per tornare nella RSA con piaghe da decubito e contratture muscolari dovute proprio al fatto che l’ospedale, per sua natura, non è in grado di rispondere adeguatamente ai suoi bisogni.

Per questi motivi il trasferimento in un reparto ospedaliero dovrebbe essere fatto solo in casi di assoluta necessità e durare il minor tempo possibile. In alcuni casi, tuttavia, un breve periodo di ospedalizzazione può essere indispensabile, ad esempio quando c’è bisogno di un intervento chirurgico per stabilizzare una frattura che altrimenti causerebbe un forte dolore.

Ciò nonostante, di regola è meglio non mandare in ospedale il paziente se il problema può essere risolto in RSA con un approccio di cura di tipo palliativo e con un buon controllo dei sintomi.


5) I medici devono sempre praticare la rianimazione cardio-polmonare (le manovre che servono a far ripartire il battito in un paziente in arresto cardiaco)?


Il motivo per cui ci si pone questa domanda è che la maggior parte delle RSA non è attrezzata per eseguire la rianimazione cardiopolmonare (CPR).

Tuttavia, per capire i termini del problema, immaginiamo che il paziente sia invece ricoverato in un luogo dove le apparecchiature necessarie per la CPR ci siano.

Ma la CPR sarebbe appropriata in tali circostanze?

La maggioranza dei medici concorda nel sostenere che questo genere di manovre, a questo tipo di malati, facciano più male che bene.

Innanzitutto, la possibilità di rianimare una persona in condizioni generali tanto compromesse è estremamente limitata. Inoltre, il rischio di causare danni al paziente è molto elevato (ad esempio, è quasi inevitabile provocare fratture alla gabbia toracica). Infine, più tempo il malato rimane in arresto cardiaco, più cresce la probabilità che dopo essere rianimato resti in coma per il resto dei suoi giorni.

Questi sono solo alcuni dei tanti motivi per i quali non è consigliabile la CPR in malati con patologie degenerative cerebrali in stadio avanzato.




Decisioni riguardo alla fine della vita




1) Chi prende le decisioni mediche alla fine della vita? Il medico o chi rappresenta il malato (il famigliare, tutore/amministratore di sostegno)?


E’ facile che, ad un certo punto, i curanti si trovino, se non esiste più la possibilità di un trattamento diretto della patologia (trattamento curativo), a scegliere di spostare l’attenzione terapeutica alla cura della sintomatologia e a fare in modo che la fine inevitabile del paziente giunga senza eccessive sofferenze (cure palliative).

È quindi assolutamente necessario che medici e famigliari trovino il tempo per parlare apertamente di questo problema.

La domanda che ci si deve porre è la seguente: “Qual è la cosa migliore da fare per questa persona, in questo momento?”.

La situazione ideale è che, su cosa vada fatto, siano tutti d’accordo. Il peso di una decisione così difficile non deve essere caricato sulle spalle della sola famiglia. La cosa migliore sarebbe che tra equipe curante e famigliari si fosse instaurata una buona e solida relazione da ben prima che il malato giungesse allo stadio terminale. I famigliari in genere si sentono tanto più tranquilli quanto meglio sono stati informati e quanto più il loro punto di vista è stato accolto in precedenti occasioni.


2) Qual è il ruolo del famigliare o del rappresentante legale (tutore/amministratore di sostegno) del paziente nel processo decisionale?


La legge italiana stabilisce che le decisioni mediche relative allo stato di salute di un cittadino possano essere prese solo da lui medesimo.

Nel caso questi non sia in grado di farlo, queste decisioni toccano al rappresentante legale (tutore nominato dal giudice, o amministratore di sostegno), che è chiamato, in pratica, ad accettare o rifiutare i consigli del medico, in base a ciò che crede sia meglio per il paziente stesso. Il suo consenso deve essere informato e fornito volontariamente e senza costrizioni: chi rappresenta il paziente deve essere a conoscenza delle diverse possibilità di trattamento e non deve avere la sensazione che le scelte gli vengano imposte.

In mancanza di rappresentanti legali, di fatto, tali decisioni competono al medico.

Il famigliare non ha alcun ruolo giuridico per accettare o rifiutare una proposta medica, a meno che, appunto, non sia stato nominato tutore o amministratore di sostegno. Tuttavia i famigliari giocano comunque una parte importante, dal momento che essi possono orientare, criticare o confermare le proposte del medico, proprio perché, in genere, essi conoscono il malato più a fondo e da più tempo di chi l’ha assunto in cura.


Non dovete mai esitare a comunicare al medico i vostri dubbi e problemi.

Quando incertezze e domande restano inespresse, i famigliari sono sottoposti a uno stress inutile ed evitabile.


3) Cosa fare in caso di conflitto o di dubbio?


I famigliari a volte rifiutano quanto propone il medico, o non sono d’accordo tra loro nel decidere il da farsi.

Il medico non ha il potere di imporre la sua soluzione alla famiglia, e, del pari, anche la decisione del famigliare o del rappresentante legale può essere contestata dai curanti se non corrisponde a ciò che loro pensano sia il miglior interesse del malato.

Cosa si può fare, allora, in questi casi? Talvolta è necessario arrivare ad un compromesso.

Ad esempio, si può accettare di provare per un tempo determinato un certo trattamento e poi valutarne gli effetti prima di decidere se continuare o meno.

Si può anche interpellare un altro medico, o un comitato etico - che è un organismo composto non solo da sanitari ma anche da esperti di etica, da giuristi e da rappresentanti dei cittadini.


4) Se si è deciso di non ricorrere a certi trattamenti, significa che il paziente verrà abbandonato?


Nel passato, durante la fase terminale della malattia, i medici erano soliti dire alla famiglia: “non c’è più nulla da fare”.

I familiari spesso considerano questa affermazione come un vero e proprio abbandono, e, per buona che sia l’assistenza infermieristica e l’accudimento, credono che, dal quel momento alla fine della sua vita, il malato sia condannato a dolore e difficoltà.

Questo modo di pensare non ha più ragione di esistere. Facendo tesoro dell’esperienza delle équipes di cure palliative che si occupano dei malati di cancro, anche chi assiste i malati con grave demenza può giocare un ruolo determinante nel provvedere il massimo comfort fisico e psicologico a chi è prossimo alla morte ed ai suoi famigliari.

Come vedremo in seguito, oggi disponiamo di diversi modi per rendere questo possibile.


5) In queste circostanze, le autorità religiose sono d’accordo con la decisione di non sospendere o non iniziare trattamenti per prolungare la vita?


Per quanto ci risulta, tutte le autorità religiose alle quali sono state poste queste domande, considerano moralmente lecito astenersi da terapie che prolungano la durata della vita di un paziente terminale quando le speranze di migliorarne la qualità siano poche o nulle. Se però dovessero sorgere dubbi in proposito, è bene che i famigliari affrontino per tempo questo argomento con un ministro del proprio culto. Nella maggior parte delle RSA e degli ospedali operano sacerdoti, pastori o religiosi di altre fedi che conoscono bene i problemi del malato e le preoccupazioni di chi lo assiste e sono disponibili per discutere di queste cose con i famigliari.


6) L’eutanasia è un’opzione accettabile?



Nella maggior parte dei Paesi, Italia compresa, si ritiene che una eventuale legge che rendesse lecita l’eutanasia finirebbe per produrre più danni che benefici, ragion per cui essa è assolutamente proibita anche nei momenti finali di una fase terminale di malattia.

E’ bene però non confondere ambiti diversi. Anche per la legge italiana, infatti, è lecito non iniziare o sospendere un trattamento inutile o inefficace (cioè una terapia non in grado di ottenere ciò che ci si prefigge), quando esso rappresenti un evidente accanimento.

Così, anche nelle fasi avanzate della demenza, è bene che medici e famigliari decidano insieme il livello di intensità delle cure in atto o che possono essere iniziate, valutando caso per caso rischi e benefici e il miglior interesse della persona malata.




Il controllo dei sintomi





1) Quali sono i sintomi più frequenti alla fine della vita?


I più frequenti sintomi alla fine della vita sono la dispnea (difficoltà di respiro) e il dolore. Altri sintomi spesso presenti sono l’agitazione, l’ansia, il vomito.


2) Come è possibile rimediare ai problemi respiratori?


I disturbi del respiro possono avere molte cause: infezioni dei polmoni, problemi di cuore, aspirazione del cibo nei polmoni e così via.

Il trattamento dipende dalla causa. Nelle fasi avanzate di malattia di solito, per ridurre la difficoltà provata dal paziente nel respirare, si usa la morfina. Alcuni medicinali, che possono essere inalati attraverso una pompa, un inalatore o una maschera, sono in grado di ridurre lo spasmo dei bronchi, un disturbo simile a un attacco d’asma. Se si è in presenza di insufficienza cardiaca, o per ridurre un eccesso d’acqua nei polmoni, talvolta si devono usare anche i diuretici, cioè i farmaci che aumentano la produzione di urina.


3) Ad un paziente che ha una infezione, gli antibiotici vanno sempre somministrati?


In caso di polmonite, se ci sono febbre alta e secrezioni purulente, può essere necessario prescrivere degli antibiotici.

Il vero problema, però, è se la cosa giusta da fare sia cercare di combatterla, la polmonite, o scegliere le cure che possono eliminare o ridurre i disturbi e le sofferenze che accompagnano gli ultimi giorni di vita. Bisogna capire, affrontando questo problema con la famiglia, quale fossero stati i desideri del malato, per poter decidere quale possa essere la più opportuna strategia di cura. In caso di dubbio, o quando il parente più stretto non è reperibile, alcuni dottori possono anche decidere di iniziare un certo trattamento, per poi eventualmente sospenderlo se esso non si rivela efficace o se poi risultasse non essere la soluzione che il malato avrebbe desiderato. D’altra parte, è possibile che alcune infezioni siano esse stesse causa diretta di dolore o malessere (come ad esempio, le infezioni della vescica), ed in questo caso una terapia antibiotica diventa il modo migliore per dare al paziente un rapido sollievo.


4) Come si possono controllare le secrezioni quando rendono difficile e rumoroso il respiro?


Quando c’è una grande quantità di secrezioni nella parte posteriore della gola, il malato viene sistemato nel letto in una più corretta posizione in modo che queste non gli ostacolino il respiro, e gli vengono somministrati farmaci che ne riducono la ulteriore produzione. In genere, all’inizio i farmaci sono efficaci: tuttavia, col tempo, le secrezioni diventano troppo abbondanti e dense, e il paziente continua ad avere una respirazione rumorosa (rantolo).

Per chi sta vicino, questo tipo di respiro può dare l’impressione che il malato ne venga affaticato, addirittura spossato; invece, se il paziente è in coma o se gli vengono somministrati abbastanza farmaci da renderlo tranquillo e senza sofferenze, è difficile che egli si accorga di come sta respirando. Può essere alle volte necessario usare un aspiratore per rimuovere le secrezioni dalla bocca, se sono in grande quantità. Però, questa procedura può essere poco gradevole e, pertanto, viene svolta solo quando è strettamente necessaria.





5) È utile dare l’ossigeno?


Se il paziente fa fatica a respirare, l’ossigeno può contribuire a ridurre certi dolori muscolari e alcuni problemi respiratori. Tuttavia, quando la fine della vita è vicina o il paziente è in coma, è saggio sospenderlo per non rischiare di prolungare l’agonia con l’uso della tecnologia.


6) Quali sono i segni di dolore in una persona che non è più capace di esprimersi?


È spesso difficile capire se un malato incapace di esprimersi ha dolore e quanto ne abbia. Bisogna osservare le espressioni del volto, le vocalizzazioni (cioè i suoni che emette dalla bocca) e i movimenti che fa.

Non esitate ad avvisare il personale se vi sembra che gli antidolorifici somministrati al paziente non siano sufficienti.


7) Come può essere alleviato il dolore?


Il dolore può avere molte cause, per cui è importante individuare quella giusta.

Soprattutto bisogna che il paziente sia posizionato nel modo corretto e confortevole, in un letto adatto e comodo.

Esistono molti farmaci che agiscono su diversi tipi di dolore, che talora devono essere somministrati in diverse combinazioni tra loro per essere veramente efficaci. Gli oppioidi, come la morfina, sono sicuramente i farmaci più adatti ad alleviare il dolore di intensità da moderata a forte. In questa fase della malattia, per controllare validamente il dolore bisogna somministrarli con regolarità (ad esempio, ogni quattro ore). Talvolta i medici prescrivono in cartella delle dosi supplementari, da usare se necessario tra una dose prefissata ed un’altra, in modo che in caso di ricomparsa di dolore il paziente non venga lasciato magari per ore a patire prima che venga di nuovo cambiata la terapia. Poiché però col tempo l’organismo si abitua ad una certa dose di morfina, questa, di tanto in tanto, deve essere aumentata (sempre sotto controllo medico) perché continui ad essere efficace.


8) La morfina può uccidere il paziente?


Molti pensano, sbagliando, che sia l’ultima dose di morfina a far smettere di respirare, soprattutto se questa è più forte delle precedenti.

I pazienti, in realtà, possono tollerare dosi molto alte, a patto che l’aumento avvenga gradualmente.

In teoria, è anche possibile che dosi molto forti possano accelerare la morte. Ma se anche così fosse, quando e se l’obiettivo di un intervento medico è dare sollievo al dolore e non far cessare la vita, è moralmente accettabile somministrare quanto è necessario.

Non rispondere alle esigenze del paziente e lasciarlo soffrire, questo sì, sarebbe invece immorale.


9) Come possono essere calmate l’ansia e l’agitazione?


Non è sempre facile distinguere il dolore da uno stato di ansia in un paziente agitato o incapace di star fermo.

Per questo i palliativisti preferiscono somministrare, assieme alla morfina, dei farmaci che agiscono contro ansia e allucinazioni. Anche questi farmaci, efficacissimi nel rendere confortevoli gli ultimi giorni di vita, sono di solito usati a orari regolari.


10) È necessario somministrare altri farmaci, o misurare la pressione, la temperatura, la glicemia, ecc.?


I medici devono prendere decisioni anche su altri tipi di interventi e terapie. Verso la fine della vita, ad esempio, quando deglutire diventa davvero difficile, è spesso preferibile - e perfino necessario – smettere di far prendere i medicinali per bocca.

Quei farmaci che continuano ad essere davvero indispensabili allora devono essere somministrati per altre vie, per iniezione o in forma di supposta. Per ridurre il fastidio provocato da ripetute punture, queste possono essere fatte attraverso un sottile catetere introdotto sotto la pelle, che non produce disturbo alcuno e che può essere lasciato per molto tempo senza dover essere sostituito.

Misurare la temperatura o la pressione, o misurare il livello dello zucchero nel sangue, invece, diventa sempre meno importante, mano a mano che ci si avvicina alla fine, soprattutto quando queste procedure debbano essere eseguite su chi stia dormendo pacificamente. Invece le cure infermieristiche finalizzate all’igiene e alla cura della pelle (indispensabili per prevenire le ulcere) devono essere continuate fino all’ultimo, perché contribuiscono al comfort e alla dignità della persona che sta morendo.


11) Come si sente il paziente quando non mangia né beve più?


I malati di cancro e coloro che, pur essendo affetti da malattie degenerative neurologiche, riescono a conservarsi lucidi fino alla fine, ci dicono che sete e fame sono tutto sommato irrilevanti.

La maggior parte dei pazienti rifiuta tutto, anche piccole quantità di cibo. Ciò che li disturba maggiormente è una sensazione di bocca asciutta. Perciò gli esperti di cure palliative hanno sviluppato prodotti capaci di trattare efficacemente la secchezza di bocca, labbra e gola. Nel piano di assistenza infermieristica il trattamento di questo particolare sintomo è assolutamente prioritario.

D’altra parte, una riduzione della quantità globale di liquidi presenti nell’organismo (disidratazione) non è di per sé dolorosa. Il sangue diventa più concentrato e i reni funzionano sempre meno e, infine, smettono di farlo. Tutti questi cambiamenti però, in genere non aumentano i disturbi del paziente perché diminuisce, nel contempo, anche la percezione del dolore, e spesso finiscono persino per essergli di aiuto: ad esempio, riducendosi la quantità di liquidi del corpo si riducono anche le secrezioni, rendendo più facile la respirazione.


12) Dovrebbe essere iniziata una terapia endovenosa?


Alcuni famigliari pensano che il paziente, con le flebo, starebbe meglio.

La nostra esperienza ci conferma invece l’opposto: nelle fasi terminali i liquidi per endovena finiscono semplicemente per aumentare la quantità di secrezioni nelle vie respiratorie, ritardando così l’assopimento finale e prolungando la durata delle sofferenze.


13) Cosa fare se la persona ha già un sondino per nutrizione artificiale?


Anche se questo concetto può essere difficile da comprendere, gli esperti di etica considerano la decisione di smettere di nutrire il paziente attraverso un sondino moralmente equivalente a quella di non inserirlo affatto.

Quindi, dopo aver affrontato il problema con un membro della famiglia o con l’eventuale rappresentante legale (tutore o amministratore di sostegno), se la malattia è ormai prossima alla fase terminale o se le complicazioni della nutrizione (vomito, inalazione di rigurgito alimentare, lesioni da decubito, intolleranza del paziente al sondino) diventano sempre più frequenti, è possibile sospendere l’alimentazione artificiale, se ciò risulta essere nell’interesse del paziente. Non è indispensabile che il sondino sia rimosso, poiché questa procedura è spesso fastidiosa. Anche se tutto ciò può sembrare disumano, come fanno notare gli esperti di etica, perché mai la gente dovrebbe soffrire più a lungo oggi di quanto avrebbe sofferto prima dell’avvento delle attuali tecnologie?



14) Quanto vivrà ancora una persona che non beve e mangia più?


Quando un malato smette di mangiare e di bere, normalmente vive ancora alcuni giorni. Tuttavia, chi è in condizioni fisiche migliori, o chi ingerisce un po’ di liquidi durante la cura del cavo orale, potrebbe vivere ancora per alcune settimane.

Ogni caso è diverso da un altro, e può essere difficile per i curanti prevedere con esattezza quanto tempo resta prima del decesso.




Gli ultimi momenti





1) Come ci si deve comportare quando il paziente è privo di coscienza?


Le cose da fare che risultano essere d’aiuto ad un moribondo sono molto semplici.

Toccarlo ed abbracciarlo, parlargli dolcemente, oppure fargli ascoltare la musica che preferiva: queste sono solo alcune delle attenzioni con le quali si può dar conforto e senso di sicurezza. Se appena possibile, i suoi cari dovrebbero organizzarsi in modo da non lasciarlo mai solo durante gli ultimi giorni. RSA ed ospedali tendono ad essere sempre disponibili nei confronti dei famigliari di un morente, facendo in modo che essi possano trascorrere anche l’intera notte vicino al loro congiunto.

Se il famigliare è anziano, o malato, o se ci sono troppo pochi famigliari a disposizione, si può ricorrere ad altri, ad esempio a dei volontari, che gli stiano accanto ed avvisino il personale qualora il malato dia segni di sofferenza.


2) Come sono i momenti finali?


Se la persona morente riceve le cure descritte in questa guida, la morte è di solito serena. Il respiro diventa debole e irregolare. Le pause tra un respiro e l’altro diventano sempre più lunghe. Alla fine, il paziente, in stato di completa incoscienza, farà qualche profondo respiro prima di esalare l’ultimo.

Molti famigliari ed amici che sono stati presenti in questi momenti hanno raccontato che gli ultimi attimi sono molto meno difficili e tristi di quello che si sarebbero aspettati. Ed in più, si sono sentiti più tranquilli anche riguardo la propria, di morte.




Dopo il decesso





Cosa succede dopo il decesso?


Un medico accerterà l’avvenuto decesso e gli infermieri prepareranno il corpo secondo i desideri della famiglia prima che sia portato alla camera mortuaria.

Il medico potrebbe anche chiedere il vostro consenso per un’autopsia, anche se questa eventualità avrebbe dovuto essere discussa in precedenza. I risultati dell’autopsia potrebbero essere di grande importanza in caso di malattie ereditarie o che compaiono più frequentemente tra i membri di una stessa famiglia. In questo modo tali malattie potrebbero essere precocemente individuate nei consanguinei. Se la persona soffriva di una malattia le cui cause non sono state individuate, potrebbe essere utile effettuare un esame del cervello. Tuttavia questa è una cosa che capita di raro.


La sofferenza (il “cordoglio”) che proverete dopo la morte della persona che avete assistito potrà assumere diverse forme. Ogni persona può reagire alla perdita in modo differente. Alcuni saranno sorpresi dallo scoprire che si sentono più sollevati che abbattuti. Questa è una reazione normale quando, dopo una lunga malattia, finalmente giunge la morte.

Potreste anche sentirvi in collera, soli, esausti e perfino colpevoli, ed aver bisogno di concedervi il tempo necessario perché vi passi, o di trovare qualcuno che vi aiuti a superare questa fase.

Se vi serve un consiglio o il supporto di un esperto, potete rivolgervi ai servizi sociali del vostro comune o alla più vicina sezione dell’AIMA (Associazione Italiana Malattia di Alzheimer).















In questa guida abbiamo provato a fornire alcune risposte alle domande che più frequentemente ci si pone quando chi soffre di una malattia degenerativa cerebrale giunge alla fine della vita. Per fare sì che questa fase della malattia si svolga in modo sereno, è importante che i congiunti e i parenti stretti abbiano ben chiaro cosa l’équipe di cura possa e debba fare. È altrettanto essenziale che il medico e lo staff siano disponibili a dare tutte le informazioni necessarie, e che trovino il tempo necessario per raggiungere un accordo su quali trattamenti adottare nell’interesse del malato e nel rispetto dei suoi desideri.

Ma poiché è raro che un paziente abbia espresso in precedenza, a voce o per iscritto, questi suoi desideri in modo chiaro, il nostro consiglio è che, in caso di dubbio, venga adottato un approccio di tipo palliativo, orientato, cioè, al comfort fisico e psicologico.

La maggioranza della gente ritiene, infatti, che una grave demenza, prolungata oltre misura, sia peggio della morte.
















© 2008 – AIMA Associazione Italiana Malattia di Alzheimer

Ripa di Porta Ticinese 21 – Milano


Supplemento al Bollettino dell’AIMA

Anno XX n° unico

Autorizzazione del Tribunale di Milano n.° 432 del 17/6/1988

Direttore responsabile: Pierluigi Mutti







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