Fino a quando il malato di Alzheimer è una persona?
di Daniele Villani
Chi ha consuetudine con le persone affette da demenza non può non riconoscere che spesso - durante le conversazioni, le visite, le azioni quotidiane – ci si comporta come se il malato fosse assente, inesistente. Come se ci trovassimo davanti a una persona “che non c’è più”.
Pensiamo ai medici (e a qualunque altro professionista) che parlano al letto del malato, parlano del malato, della sua vita, e usano termini e frasi che mai userebbero davanti a un malato cognitivamente competente; pensiamo ai medici che hanno davanti a sé, dall’altra parte della scrivania, il malato e la famiglia, però parlano solo con i famigliari, guardano solo loro, chiedono solo a loro. Sono tante le situazioni in cui, osservando i comportamenti di chi cura i malati di Alzheimer, viene da chiedersi: ma questi malati sono ancora, realmente, praticamente, considerate persone ? Oppure la qualifica e la dignità di persona - quindi di essere umano dotato di volontà, di coscienza, di sentimenti che possono essere espressi e che devono essere rispettati – vengono meno nel malato di Alzheimer, soprattutto nelle fasi avanzate, quando le funzioni cognitive sono perdute e il malato non ricorda più nulla, neppure il proprio nome, e non sa dire neppure una parola?
Considerando ciò, la sensazione che il concetto di persona si identifichi con le funzioni cognitive è molto forte. Tanto più forte in una società come la nostra dove si è misurati in base alle performance e all’apparenza (e il modello mediatico dell’uomo e della donna belli, ricchi, vincenti, sono agli antipodi del malato di cui stiamo parlando). Ma la persona non è solo cognitività, cioè memoria, linguaggio, attenzione, capacità di pianificare, giudicare, criticare; la persona è anche sentimenti, emozioni , relazioni (e dunque capacità di provare ed esprimere sofferenza, contentezza, dolore, noia, solitudine). Certamente, quando la cognitività è perduta tutto diventa più difficile da capire, tutto va decodificato e interpretato. Ma la persona c’è, è lì davanti a noi: con la sua dignità, con la sua storia. Se questo concetto non è chiaro e condiviso, diventa grande il rischio di reificazione del malato, il rischio che il malato diventi oggetto di cura, e non più soggetto di cura.
Invece noi sappiamo bene che questi malati non diventano mai oggetti, o vegetali; conosciamo bene le emozioni, i sentimenti, le capacità relazionali e persino i frammenti di cognitività che rimangono, sino all’ultimo minuto di vita, presenti e decifrabili da chi abbia la sensibilità e la pazienza per scrutarli e interpretarli.
Bisogna, come dice bene F. Blanchard*, sostenere con forza alcuni principi: che la vita psicologica ed emozionale prosegue, nonostante il declino cognitivo; che la comunicazione è sempre possibile, anche quando le parole non possono più essere dette e capite; che non bisogna “cercare la persona di prima”, ma vivere nella nuova relazione.
Infine, bisogna affermare con forza il dovere di solidarietà che tutti noi abbiamo nei confronti di questi malati.
*François Blanchard, (Professor of public health, Head of the Geriatric Department and coordinator of the Neurology/Geriatrics division at the University Hospital of Reims), We have to fight against the idea that Alzheimer’s disease is death of the spirit, in Supporting and caring for people with dementia throughout end of life, pagg 10-16. Fundation Mederic Alzheimer, Ed. 2006
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